giovedì 2 febbraio 2017

Sa paradura un'usanza sarda che ci infonde speranza

Di luoghi comuni sui sardi, si sa, ce ne sono tanti: orgogliosi, testardi, selvatici, silenziosi, permalosi e tanti tanti altri. Quanto siano fondati e quanto sia solo frutto di pregiudizio è questione difficile da dirimere, una cosa però mette d’accordo tutti: la grande e indubitabile generosità di questo popolo. Tante sono le lezioni di vita e civiltà che sono venute dalla Sardegna e questa è una delle più belle ed attuali. Un gruppo di pastori sardi ha deciso di inviare un migliaio di capi ovini ai loro colleghi della zona di Cascia che stanno perdendo i loro animali a causa del freddo e della neve e soprattutto a causa dello stato italiano che non ha impedito questa mattanza di bestiame inviando le più volte promesse stalle provvisorie. D'altra parte, cosa aspettarsi da uno stato che lascia le persone al freddo e al gelo a sei mesi dal terremoto e che per consegnare 25 casette in legno (quando ce ne vorrebbero centinaia) organizza una riffa di paese. Se già i diritti delle persone sono calpestati e vilipesi, pretendere che lo stato si prenda cura degli animali è pura illusione! Viviamo purtroppo in una realtà distopica, ma in questi frangenti così difficili ci sono però segnali che scaldano il cuore, come la suddetta iniziativa di questi pastori, un atto di mutualità che in lingua sarda è chiamata sa paradura.
Questo meraviglioso gesto è radicato nella storia di questo popolo, la Sa paradura è, infatti, un antico strumento di mutuo soccorso secondo cui quando un pastore perde il proprio gregge a causa di un furto o di qualsiasi altra disgrazia, riceve la solidarietà dei colleghi che gli cedono uno o più capi di bestiame (quanto è nelle loro possibilità). Il beneficiario non dovrà restituire il regalo ma, ovviamente, ha l’obbligo morale di partecipare a contribuire quando qualcun altro sarà in difficoltà. Questa volta l’antica usanza ha travalicato i confini dell’isola e ha portato un po’ di sollievo ai colleghi delle zone terremotate, e non è la prima volta perché anche nel 2009 i pastori sardi avevano già raccolto capi e fieno per i loro sfortunati colleghi abruzzesi dopo il terremoto dell’Aquila nel 2009. In una società massimalista dove impera l’obbligo di primeggiare a scapito degli altri, dove il profitto è l’unica regola e l’unico fine e dove la solidarietà è solo di facciata, il gesto di questi pastori si pone in controtendenza e sottolinea quelli che invece dovrebbero essere i principi morali qualificanti della vita di ogni società: la solidarietà, la condivisione e l’aiuto reciproco. 



La sa paradura è conosciuta anche con il nome di Ponidura (dipende un po’ dalle zone della Sardegna), il primo termine significa creare, formare, ovviamente nel senso della creazione di un nuovo gregge con il contributo di tutti, mentre Ponidura deriva dal verbo ponere che in limba (lingua sarda) significa mettere a disposizione. 

Questo principio etico è fondamentale in una convivenza che vuole essere definita civile e non è un caso che tutti i sistemi di progettazione sociale lo considerino un regola aurea imprescindibile, per fare un esempio, anche la permacultura ha come pilastri fondamentali i seguenti tre principi:

- la cura per la terra

- la cura per le persone

- condividere le risorse in eccesso in modo equo con tutti ovvero la ridistribuzione del surplus.

Queste regole non sono il frutto di elucubrazioni senza contatto con la realtà, ma sono state formulate dai fondatori della permacultura dopo una lunga osservazione socio antropologica delle comunità rurali e tribali, e in generale questi elementi si ritrovano in tutti i popoli primitivi (nativi americani, indiani, ecc.), e si badi bene che il termine primitivo non vuole essere dispregiativo, ma sottolinea anzi come solo i popoli che hanno mantenuto integro il loro rapporto con la natura sono in grado di convivere in un rapporto simbiotico con la natura stessa e sono capaci di regalare agli altri quello che hanno ricevuto in dono dalla madre terra. I pastori sardi non hanno fatto altro che donare un po’ di quello che avevano, senza pretendere nulla e con la consapevolezza che, se un giorno avessero bisogno di aiuto, i colleghi abruzzesi sarebbero i primi a tendere loro una mano.

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