giovedì 18 dicembre 2014

Mangiare insetti!

Il solo pensiero di mangiare insetti suscita nella maggior parte degli occidentali un senso di disgusto e la perdita istantanea e prolungata dell'appetito. Ma la notizia che nel 2050 saremo 9 miliardi a scorrazzare su quello che sarà rimasto del pianeta terra, deve indurci a riflettere e a pensare di poter considerare una radicale inversione di tendenza sulle nostre scelte alimentari. Consideriamo che già adesso un terzo delle terre emerse sono dedicate direttamente o indirettamente alla produzione di cibo per l'uomo. Tra qualche anno la pressione antropica raggiungerà livelli tali da mettere in serio pericolo tutti gli ecosistemi terrestri e come dice un famoso detto dei nativi americani, una volta che avremo distrutto tutta la natura non potremo mangiarci i soldi. Quindi, finché siamo in tempo (e non lo so se lo siamo!) cominciamo a prendere in considerazione delle alternative che siano sostenibili per il pianeta. Limitare il consumo di carne sarebbe già un passo avanti, diventare vegetariani? Un bel salto in avanti, ma non tutti sono disposti a rinunciare alle proteine animali. Anche se insieme alle proteine, gli allevamenti intensivi ci forniscono anche un pacchetto completo di sostanze che non sono certo una passeggiata di salute per il nostro organismo (ormoni, sostanze cancerogene, ecc.) oltre ad una incommensurabile devastazione degli ecosistemi. 
Una soluzione al problema ci viene fornita da organismi che stanno un po' più in basso nella piramide alimentare: gli insetti. Da sempre l'uomo si ciba di insetti, certo non tutte le culture hanno sviluppato l'entomofagia come mezzo di sostenimento vitale,  ma centinaia di milioni di persone hanno nella loro dieta una cospicua percentuale di proteine derivanti dal mondo degli insetti. In particolare l'Asia, l'Africa, America del Sud e l'Oceania sono le aree in cui questa pratica ha la maggiore diffusione, possiamo citare le larve del punteruolo rosso che vengono mangiate in Nigeria e Papua Nuova Guinea, oppure il piatto prelibato degli aborigeni australiani costituito da formiche nutrite con il miele, le uova di formica in Messico, le tarantole della cucina cambogiana e venezuelana, le larve di vespa in giappone.
Paese che vai, insetto da mangiare che trovi. Comunque, anche in Italia abbiamo le nostre belle perversioni culinarie, basti pensare al casu martzu, formaggio sardo colonizzato dalle larve della mosca casearia. E non è un caso isolato perché diverse regioni italiane presentano formaggi con lo stesso procedimento biologico di formazione (Emilia Romagna, Calabria, Puglia, Liguria, Friuli, Abruzzo e Piemonte). Senza tralasciare alcune abitudini alimentari consolidate come le lumache e le rane che fanno venire i brividi lungo la schiena a molti. I vantaggi di una transizione verso l'entomofogia per l'ambiente sono tantissimi. Ogni hamburger prodotto comporta la distruzione di 5 mq di foreste, 35 mq per ogni kg di carne, per lo stesso kg di carne sono necessari 15000 litri di acqua (considerando tutto), mentre per produrre lo stesso quantitativo di insetti la quantità di acqua e cibo è infinitamente minore. Il quantitativo di proteine è del tutto rispettabile e paragonabile a quello della carne bovina, pochissimi grassi, alti contenuti in calcio e ferro, senza contare che per produrre un kg di carne dagli insetti servono solo 2 kg di cibo, mentre per produrre lo stesso quantitativo di carne bovina ne servono 8 kg. Gli insetti, poi, sono commestibili mediamente per l'80% della loro massa corporea, mentre di un bovino riusciamo a mangiare appena il 40% del peso. Allevare insetti al posto delle mucche comporterebbe l'impiego di superfici molto ridotte, di pochissima acqua e produrrebbe una frazione ridottissima di gas serra (attualmente il 18% dei gas serra è prodotta dagli animali allevati). Gli insetti sono molto meno vulnerabili alle malattie rispetto ai mammiferi e non sottrarrebbero superfici alle coltivazioni destinate all'alimentazione umana. 
Anche la FAO ha compreso che gli insetti sono una validissima fonte di proteine e in questo documento troverete un'analisi approfondita sulle prospettive future dell'entomofagia a livello mondiale.
Anche a livello domestico è possibile l'autoproduzione di proteine da insetti (siete contenti?), una designer austriaca, Katharina Unger, ha ideato e messo in produzione un sistema di allevamento domestico di larve di mosche soldato (il FARM 432), con il quale si possono allevare le mosche e da un comodo cassettino prelevare alla bisogna le larve da utilizzare nei vostri piatti. Esistono circa 1900 specie conosciute di insetti commestibili e questo numero è destinato a crescere man mano che vengono compiute nuove ricerche; per chi è ancora scettico, sappiate che gli insetti sono già nella vostra dieta, durante i processi di lavorazione dei cibi molto spesso vengono inglobati anche frammenti di insetti, la legislazione italiana non considera questa eventualità perchè, ovviamente, gli insetti non sono nocivi, ma ci sono nazioni che addirittura hanno fissato i limiti della presenza di insetti (o frammenti di essi) nei cibi (ad es. gli Stati Uniti). Per vostra informazione gli alimenti per così dire, più a rischio, sono le farine (e derivati), il cacao, il caffè e le marmellate.
Il tabù alimentare è già stato sdoganato da alcuni cuochi pluristellati come Carlo Cracco, che utilizza larve tritate in alcune sue ricette, oppure Renè Rezdepi che decanta il sapore di pop-corn delle sue formiche fritte. 
Cambiare abitudini alimentari è difficile, ma non impossibile.  Anche in Italia c'è stato un periodo in cui mangiare insetti era considerato normale, Plinio nel suo Naturalis Historia (77 d.c.) descriveva il consumo di una pietanza chiamata Cossus che era composta da un misto di larve di Lucanus cervus o Prionus coriarus (scarafaggi) che venivano allevate in farina e vino proprio per essere mangiate. 
Che aspettate allora?
Buon pranzo a tutti!




martedì 9 dicembre 2014

Una pianta dai mille usi: il Vetiver

Come spesso accade la natura ci viene in aiuto per mitigare gli enormi danni che più o meno scientemente arrechiamo alla nostra terra. Il Chrysopogon zizanioides, meglio noto come Vetiver, è una pianta erbacea originaria dell'India, conosciuta dai più per l'olio essenziale molto odoroso utilizzato in profumeria (basti ricordare che è uno dei componenti del famosissimo Chanel n° 5). Nella mitologia orientale era considerata un’erba dalle proprietà benefiche in grado di togliere l’energia negativa, mentre il suo profumo si credeva fosse capace di scacciare gli spiriti maligni: proprio per questo motivo, per molti secoli, si usava intrecciare radici di vetiver insieme ai filati nella fabbricazione di tappeti e nella costruzione di capanne di paglia (link). 
Cespugli di vetiver
Anche se originaria dell'oriente questa pianta, grazie alla sua versatilità nell'adattamento a condizioni pedoclimatiche estreme, ha ormai carattere ubiquitario ed è coltivata per gli utilizzi più svariati in tutto il globo terracqueo. Il vetiver, contrariamente alla maggior parte delle piante che hanno assunto una diffusione mondiale (ad es. l'ailanto), non è assolutamente infestante, ha una bassa germinabilità, non produce stoloni o rizomi e la sua moltiplicazione avviene, nelle varietà utilizzate, tramite divisione vegetativa. Le meraviglie di questa pianta erbacea cominciano dal suo apparato radicale: lo sviluppo è prevalentemente verticale ed assume dimensioni enormi rispetto alla parte aerea della pianta, pensate che un cespo di vetiver alto 50-70 cm (arriva a 150 cm), può avere una lunghezza delle radici anche pari a 4-5 metri (1:5-1:10 rapporto tra parte aerea e apparato radicale), se poi consideriamo che lo sviluppo è prevalentemente verticale, che le radici sono fittissime e fibrose ed hanno una resistenza media alla trazione paragonabile ad 1/6 di quella di un acciaio di media qualità, riusciamo a comprendere come la prima applicazione pensata per questa meraviglia della natura sia stata il consolidamento dei versanti. Le particolari caratteristiche delle radici la rendono perfetta per questa applicazione ingegneristica, si consideri infatti che le radici sono così sottili che si insinuano tra le rocce frantumate e dislocate creando un reticolo di tenuta che blocca l'ammasso consolidandolo sempre di più man mano che le radici si estendono nel sottosuolo. La conformazione cespitosa del fusto e la sua resistenza alle azioni meccaniche (dovuta alla elevata presenza di silice nelle foglie) fa si che le piante, disposte a siepe, svolgano una funzione mitigante dell'erosione superficiale impedendo il ruscellamento e favorendo l'infiltrazione delle acque. Quindi il risultato è duplice e complementare: il consolidamento del versante e l'abbattimento del ruscellamento superficiale che è una delle cause del dissesto, a questo si aggiunga che favorendo l'infiltrazione il vetiver contribuisce alla conservazione delle risorse idriche. Il costo per realizzare un consolidamento del genere risulta molto inferiore a quello delle tecniche tradizionali e i risultati sono spesso molto più efficaci. Già questa applicazione basterebbe per inserire il vetiver tra i migliori amici dell'uomo e dell'ambiente, ma le risorse di questa piantina sono numerosissime e la seconda che andremo ad analizzare è la capacità di depurazione e bonifica dei terreni e delle acque inquinate. Sono centinaia gli studi e gli esperimenti condotti sulle potenzialità del vetiver nel campo della decontaminazione e della rinaturalizzazione di suoli inquinati, le applicazioni vanno dalla contaminazione industriale (idrocarburi, metalli pesanti, carbone), alla contaminazione in campo agricolo (pesticidi), tutti hanno dato ottimi risultati ed hanno spinto la ricerca ad approfondire le possibilità fornite dal vetiver. Le piante hanno la capacità di resistere ed incorporare nella biomassa quantità straordinarie di Azoto, Fosforo, Potassio, Metalli Pesanti, Idrocarburi che sarebbero letali per ogni altra pianta.
Questa particolarità la rende adatta per la messa in sicurezza ed il progressivo disinquinamento di aree intensamente inquinate. La copertura vegetale permanente che si ottiene, riduce al minimo la volatilità degli inquinanti presenti sul terreno impedendo che questi penetrino nelle vie aeree di chi si trova in aree limitrofe e nella catena alimentare (link).
Impianto di fitodepurazione con piantine di vetiver
Qui di seguito una lista non esaustiva degli altri usi del vetiver in giro per il mondo:
Industria: il vetiver ha un alto contenuto di cellulosa (45,8%) quindi può essere utilizzata per la produzione di carta di buona qualità e cartone. In Thailandia vengono prodotti pannalli isolanti a base di vetiver per l'edilizia. Inoltre, può essere utilizzato per produrre un truciolato di buona qualità.
Energia: dagli scarti del vetiver, attraverso un processo di saccarificazione e fermentazione (SSF tecnique)  si produce etanolo limpido e di buona qualità con una produzione pari al 13% in peso.
Artigianato: per millenni le fibre di questa pianta sono state utilizzate per produrre ceste, contenitori, tappeti, borse, cappelli e persino recipienti per l'acqua (mescolando le fibre di vetiver con l'argilla).
Edilizia: oltre ai pannelli isolanti, le balle di paglia di vetiver sono ottime isolanti e con un'elevata resistenza al fuoco, inoltre, sono totalmente libere da insetti grazie al repellente chimico naturale prodotto dalle sue stesse foglie. Dalla cenere delle foglie si produce un cemento con buone caratteristiche meccaniche. Tradizionalmente in Asia, le foglie venivano impiegate per la costruzione dei tetti. All'interno dei mattoni di argilla prodotti a mano per fabbricare le case in Senegal vengono inserite fibre di vetiver per evitare le lesioni e le rotture durante l'essiccazione.
Alimentari: in India l'essenza di vetiver viene utilizzata per aromatizzare gelati, sciroppi e bevande. La radice viene utilizzata per preparare bevande rinfrescanti.
Medicina: dal vetiver si produce un olio terapeutico utilizzato per bilanciare l'attività delle ghiandole sebacee, come olio emolliente e come rimedio per l'acne oltre che per le rughe e le smagliature. Come infuso è stato dimostrata l'efficacia in molti disturbi di origine nervosa (insonnia, ansia, ecc). Le applicazioni vanno ben oltre quelle descritte: febbre, lombalgie, emicranie, irritabilità di stomaco, cistifellea, diabete, reumatismi fino alla cura dei tumori sono le applicazioni del vetiver nella medicina tradizionale orientale.
Profumeria: l'olio essenziale veniva utilizzato per la produzione di profumi e di fragranze utilizzate nei potpourri, saponi, cere aromatizzate e oli per la pelle. Attualmente, visto l'avvento dei prodotti di sintesi industriale nel campo della profumeria, l'uso della radice di vetiver ha perso parte della sua importanza.
Foraggio: le giovani piantine possono essere utilizzate come foraggio per il bestiame o come cibo negli allevamenti di pesce. Le piante più grandi presentano qualche inconveniente, innanzitutto hanno valori nutritivi più bassi delle altre piante utilizzate come foraggio, inoltre, sono abbastanza dure perché presentano elevati tenori di silice.  A questi elementi negativi fanno da contraltare alcuni aspetti positivi tutt'altro che trascurabili: il contenuto ottimale di carboidrati strutturali e di proteine grezze. La conclusione ovvia è che il vetiver può essere utilizzata come foraggio miscelata con altre piante che ne completino le proprietà nutrizionali.
Coltivazione di funghi: le foglie di questa poliedrica piantina contengono molti composti chimici come la cellulosa, l’emicellulosa, la lignina, proteine grezze, oltre a diversi minerali. Tutto questo rappresenta un ottimo substrato per far crescere i funghi.
Insetticida: è risaputo che questa pianta ha pochissimi nemici. Diversi studi hanno evidenziato che le foglie del vetiver contengono sostanze sgradite agli insetti, acari e ai microrganismi patogeni (ad es. il nootkatone, la stessa sostanza che conferisce aroma e profumo al pompelmo).
Fungicida: per i motivi su esposti la pianta risulta difficilmente attaccabile dai funghi.

Allelopatia: pochissime altre piante riescono a crescere nei pressi di una piantina di vetiver. Il fenomeno per cui una pianta rilascia nel terreno sostanze che inibiscono la crescita e lo sviluppo di piante concorrenti è detto allelopatia o antagonismo radicale e la pianta in questione sfrutta in pieno questa caratteristica. Gli studi eseguiti sono diversi (sulla germinazione dei semi di soia ad es.) e gli scienziati stanno cercando di utilizzare l’olio di vetiver come erbicida naturale.
Infine, non è trascurabile il fatto che questa pianta ha un aspetto gradevole ed è di semplicissima coltivazione, questo ha contribuito alla diffusione del vetiver come pianta ornamentale e con valenza paesaggistica. Una pianta, mille usi diversi, che volete di più?


venerdì 28 novembre 2014

La lombrifiltrazione

La lombrifiltrazione è una tecnica messa a punto negli ultimi anni che consente di depurare scarichi civili e anche industriali tramite i lombrichi. Questo animaletto non riscuote molti apprezzamenti solo perché in pochi ne conoscono le eccezionali virtù e capacità. Il corpo di questo piccolo anellide funziona come un vero e proprio biofiltro ed è capace di depurare efficacemente le acque di scarico fognario rendendole adatte anche all'irrigazione. La capacità depurativa del lombrico è allo studio di numerose università in tutto il mondo e già da tempo esistono impianti di filtrazione e depurazione che utilizzano i lombrichi come attori principali del processo di rimozione degli inquinanti dalle matrici. Il lombrico, unito ad altri sistemi naturali come la fitodepurazione, può rappresentare una soluzione ecologica ed efficace per lo smaltimento di fanghi provenienti da allevamenti intensivi ed altamente inquinanti, ma anche per gli scarichi civili.
vermifilter
 Infatti, è ormai consolidato il fatto che i lombrichi attraverso il passaggio intestinale riescono a depurare e disinfettare quello che ingeriscono, questo grazie alla presenza nel loro intestino di antibiotici naturali e di una sostanza con notevoli proprietà antibatteriche. Tanto per capirci, il passaggio di acque di fogna attraverso un biofiltro costituito da una lettiera di lombrichi consente un abbattimento vicino al 100 % dei coliformi fecali rendendo le acque di scarico pulite a tal punto da potere essere destinate all'irrigazione per prodotti agricoli destinati al consumo umano. L'efficienza nella filtrazione degli amici lombrichi combinata con l'economicità e la semplicità costruttiva dei biofiltri rappresentano una valida alternativa ai costosi sistemi di depurazione tradizionali. I benefici non si esauriscono nell'abbattimento dei coliformi ma si hanno notevoli miglioramenti nei BOD e COD, ma anche i famigerati nitrati vengono annientati attraverso la lombrifiltrazione e questo rappresenterebbe un importante passo avanti nella gestione degli effluenti inquinanti che vengono prodotti dagli allevamenti intensivi. Ricordiamo che i nitrati presenti nei liquami prodotti dai moderni allevamenti intensivi finiscono, se non gestiti correttamente, molto facilmente e molto rapidamente ad inquinare le falde acquifere. Questo è un problema molto diffuso che ha anche prodotto una serie di provvedimenti a livello di comunità europea (direttiva nitrati 91/676/CEE) e che potrebbe essere definitivamente risolto utilizzando degli impianti di lombrifiltrazione e lagunaggio. Questi sistemi sono già operativi in molti paesi europei (ad es. Francia), negli Stati Uniti e in America del Sud e si diffondono molto rapidamente vista l'efficienza e la facilità di gestione e anche in Italia si comincia a comprendere, seppur con fatica, l'utilità dei lombrichi nella biodepurazione. 

giovedì 20 novembre 2014

8 buone ragioni per tenere i lombrichi in casa

Immaginate centinaia di vermi viscidi strisciare attraverso verdure marce. Le loro piccole sacche di uova trasparenti sono disseminate tra avanzi di cibo parzialmente decomposti e del tutto irriconoscibili. In silenzio, la loro popolazione raddoppia ogni tre mesi, il loro insaziabile appetito cresce. Immaginate zolle di terriccio fangoso da cui spuntano piccoli corpi rosa che masticano e si dimenano senza sosta. Ora immaginate tutto questo nel vostro salotto. No, Non è un film dell’orrore, è semplicemente quello che accade all'interno di una lombricompostiera. Benvenuti nel mondo del vermicomposting.

Può sembrare una cosa terribile, ma non è così male come sembra. Infatti, ogni persona sul pianeta dovrebbe avere almeno uno (preferibilmente due) bidoni di compostaggio con i lombrichi. Non tutti hanno un giardino, ma questa tecnica è perfetta anche per chi vive in un appartamento. Riduce i rifiuti, crea un fertilizzante organico perfettamente bilanciato, richiede poca o nessuna manutenzione, può essere tenuto praticamente ovunque, e, soprattutto, non puzza (se ben gestito). Di seguito sono riportati otto motivi per cui il vermicompostaggio dovrebbe essere praticato da tutti.

Riduzione dei Rifiuti
Il Vermicompostaggio elimina letteralmente la maggior parte, se non tutti, dei rifiuti alimentari ad una velocità incredibile. I lombrichi rossi (Eisenia Fetida), i vermi comunemente utilizzati in vermicoltura, consumano circa la metà del loro peso corporeo di materia in decomposizione ogni giorno. Inoltre, i loro rifiuti non puzzano.
Bassa / No Manutenzione
A parte rivoltare di tanto in tanto il compost e ogni tre quattro mesi raccogliere il prodotto finito (vermicompost), un rifornimento costante di avanzi di cibo è tutto ciò di cui ha bisogno un allevamento di lombrichi per funzionare. Dei fori opportunamente realizzati nel bidone, consentono all’ossigeno di fluire attraverso la materia organica in decomposizione, consentendo ai batteri aerobici di abbattere la struttura cellulare dei rifiuti organici. Finché ci sono pochi o nessun batterio anaerobico nel bidone, il Vermicompost farà un gradevole odore di terriccio.

Possono essere tenuti ovunque
I lombrichi odiano la luce! Per questo, un armadio inutilizzato, una cantina, un garage o un ripostiglio sono habitat perfetti per un allevamento di lombrichi. Per chi proprio non ha spazio, il piccolo box del compostaggio può essere tenuto sotto il lavello. Basta essere sicuri che l'offerta di cibo sia costante. I lombrichi regolano automaticamente la loro popolazione in funzione dello spazio a disposizione. Meno cibo significa meno vermi ma anche meno compost. Finché la fornitura di cibo è relativamente costante, la compostiera sarà inodore.

Fertilizzante organico (humus)
I Concimi chimici distruggono gli habitat locali: inquinano le falde acquifere e causano l’eutrofizzazione che favorisce le fioriture algali che bloccano la luce e entrano in concorrenza con le specie di piante autoctone per le risorse alimentari. Può anche essere difficile, se non impossibile, usare correttamente i concimi chimici che spesso, se non dosati, causano la morte delle piante per eccesso di dosaggio. Fortunatamente, per merito di un enzima presente nel tratto digestivo del lombrico, le sostanze nutritive del vermicompost vengono rilasciate lentamente, mettendo al sicuro le piante anche utilizzando il vermicompost in grandi quantità. In più l’odore del vermicompost è quello del terriccio di bosco, molto  più gradevole di quello dei fertilizzanti a base di letame.

Economico
Produrre vermicompost comporta solamente l’utilizzo di un contenitore (plastica, legno) con coperchio, dei resti della frutta, verdura, foglie e rami secchi, avanzi di cibo, e naturalmente, di qualche manciata di lombrichi. Una paletta per rimestare il terriccio e un paio di guanti da giardinaggio. Il contenitore può essere di qualsiasi dimensione, a seconda della quantità di rifiuti prodotti. Il materiale del contenitore può essere in legno o plastica (non in metallo). I lombrichi possono essere acquistati su internet, in alcuni negozi di giardinaggio o ottenuti gratuitamente da un amico che già pratica il lombricompostaggio.

Rivitalizzazione del Suolo
Anche il terreno più arido può essere rivitalizzato dai lombrichi. Il vermicompost ne arricchisce la struttura e la qualità ed aumenta notevolmente la capacità di trattenere l'acqua al suo interno. Si è scoperto che può anche rimuovere i metalli pesanti tossici come il piombo dal suolo.

Evita che nel nostro bidone della spazzatura ci siano resti organici
Vi siete mai chiesti perché la nostra spazzatura puzza? I colpevoli del puzzo solforico di uova marce sono un gruppo di piccoli microbi conosciuti come batteri anaerobici (che non hanno bisogno di ossigeno per vivere). Gli scarti di questi microbi è ciò che dà al cibo in decomposizione il cattivo odore ed è anche la causa della vostra spazzatura puzzolente. Mantenere rifiuti alimentari fuori dal cestino impedisce di sviluppare cattivi odori. Gli avanzi di cibo, inoltre, possono anche attirare parassiti come topi, mosche, o falene.

Nessun cattivo odore
Nonostante il cibo in decomposizione, una lombricompostiera ,correttamente gestita, avrà sempre quel particolare e gradevole odore di sottobosco umido. Dal momento che i vermi sono impegnati a convertire tutti gli avanzi di cibo in energia, gran parte del volume originale dei rifiuti andrà perso. Un unico, piccolo contenitore è in grado di elaborare i rifiuti alimentari di molte persone, per molto tempo e senza bisogno di essere svuotato.

Maldestramente tradotto da openpermaculture

lunedì 10 novembre 2014

La via dell'autosufficienza

Rendersi autosufficienti dal punto di vista alimentare ed energetico è un obbiettivo che molte persone si pongono, diventare autosufficienti può essere la risposta alle grandi sfide del nostro tempo. Mentre pochi oligarchi dell’economia cercano in tutti i modi di renderci dipendenti da bisogni effimeri e omologati, ci sono molte persone che vogliono tagliare questo malsano cordone ombelicale e crearsi la propria indipendenza. Non è un’aspirazione solo materiale, non è solo un modo per risparmiare e mangiare sano, è la via per sottrarsi a un ingranaggio che stritola le nostre vite, le condiziona in modo totalizzante e non consente di prendere piena consapevolezza delle proprie esistenze. L'autosufficienza è uno stato mentale, è la messa in pratica di un pensiero filosofico che non si esplicita necessariamente nella realizzazione di una enclave produttrice di beni e servizi ad esclusivo uso e consumo personale, ma al contrario, significa condivisione, generosità, mutuo aiuto.  Una parte della società è pronta a mettersi in gioco e a cambiare il proprio stile di vita e pensa che per cambiare il mondo è necessario partire da un radicale cambiamento personale interiore, questa parte minoritaria della società ha scelto di affrancarsi da tutto ciò che è omologazione e massificazione, da tutto quello che viene dato per scontato perché imposto da un modello sociale scelto da altri. Questo non significa necessariamente rifiutare tutto il mondo esterno per rifugiarsi in un isolamento spaziale e temporale, vuol dire, invece, ritrovare una dimensione umana che è ormai dissolta e frammentata dai condizionamenti forzati di una società insensibile e violenta che è dominata dal profitto e dagli interessi personali. 
Chi cerca l’autosufficienza si sforza di ritrovare una sfera emotiva e sentimentale che è necessaria non solo alla comunità ma anche e soprattutto all'individuo. Autoprodurre non significa meramente soddisfare i propri bisogni primari, vuol dire, invece, entrare in sintonia con la natura, sentirsi parte di una comunità che ha come primo obbiettivo quello di non entrare in contrasto con il fluire naturale delle cose, di rientrare in contatto con la madre terra e conservare per le generazioni future il nostro pianeta. Non è certamente facile, il condizionamento orwelliano incessante dei media ci ha creato un mondo fatto di finzione in cui apparire è meglio di essere, in cui i soldi sono la divinità assoluta, in cui il carrierismo sfrenato è l’unica ambizione che l’uomo deve porsi per affermare la propria esistenza. In un simile contesto chiunque la pensi in modo differente viene considerato un reietto e un fallito, isolato e messo ai margini della società. Questo atteggiamento è il frutto malato della società che ci meritiamo, è la giusta conclusione di un martellamento costante che ci ha convinto che il PIL delle nazioni è molto più importante del benessere dei popoli e dove l’affermazione sociale, anche (e soprattutto) a discapito degli altri, è il comandamento primario che viene inculcato alle nuove generazioni. Autoprodursi il cibo è un primo passo verso l’autosufficienza, cominciando con il proprio orto familiare si riducono i rifiuti (confezionamento dei cibi), l’inquinamento (carburanti e concimi chimici), si limita la dipendenza da multinazionali, si aumenta il nostro peso sociale perché un cittadino indipendente è anche un cittadino più libero, contribuiamo a rendere più sano e salutare il nostro ambiente, riduciamo in generale il consumo di energia, ripristiniamo il contatto con la terra e con l’alternarsi delle stagioni. Dall’autoproduzione nascono tante dinamiche virtuose come il baratto con altri produttori, la condivisione delle esperienze con altre persone, la creazione di una comunità basata sulla conoscenza e sull'aiuto reciproco. Produrre qualcosa che serve per nutrirci non è una semplice soddisfazione hobbistica, è qualcosa di molto più profondo che ha a che fare con l’autostima, la coscienza di sé e della natura di cui facciamo parte, con il donare agli altri ma anche a se stessi. Non tutti hanno a disposizione del terreno da coltivare ma sono possibili tante soluzioni, ad es. gli orti urbani che si stanno diffondendo nelle nostre città, oppure, tramite altre persone che hanno il vostro stesso intento, si può affittare un appezzamento di terreno incolto a poco prezzo. Anche se avete solo un balcone o un terrazzo, potete organizzare il vostro spazio in modo da coltivare ortaggi e spezie, quest'ultima opzione non vi renderà autosufficienti ma vi assicuro che in cambio avrete delle belle soddisfazioni, proprio come Cristina che condivide la sua passione tramite un bellissimo blog da cui potrete trarre ottimi spunti (www.ilmioortosulbalcone.com). A presto.

venerdì 31 ottobre 2014

La solarizzazione

I primi accenni a questa tecnica ecologica per la distruzione dei patogeni del suolo risale al 1976, quando venne pubblicata sulla rivista Phitopatology la possibilità di utilizzare il calore del sole intrappolato con un telo di plastica per disinfestare il suolo da patogeni e erbe infestanti. La tecnica è semplice ed efficace e consiste nel lavorare un terreno come se dovesse essere seminato (con tanto di innaffiatura e pacciamatura) per poi coprirlo con un telo di plastica trasparente che crea un effetto serra nei trenta centimetri sottostanti con temperature raggiunte che si aggirano tra i 40 e i 60° C. Il telo di plastica viene adeguatamente fissato alle estremità con mattoni che impediscono al vento di spostarlo e i bordi sono sepolti nel terreno in modo da isolare la porzione di terreno trattato. Il telo è lasciato per un periodo compreso tra 30 e 60 giorni, a seconda delle latitudini e della disponibilità del terreno (chiaramente in questo periodo il terreno non è fruibile). 
Le tre fasi della solarizzazione: terreno naturale, terreno lavorato con pacciamatura e irrigazione, posa del telo di plastica e bloccaggio con mattoni e con interramento dei bordi del telo
La solarizzazione,  sviluppando temperature elevate nei primi centimetri di terreno, crea un ambiente ostile per molti organismi patogeni (funghi, nematodi, semi di erbe infestanti).  La procedura è economica e di facile attuazione anche per i neofiti e per chi ha un semplice orto casalingo, ma la riuscita dipende dal rispetto delle procedure elaborate da studiosi e appassionati negli ultimi 40 anni. Questa tecnica non deve essere considerata come un trattamento unico, ma deve essere integrata in una nuova visione del modo di operare in agricoltura. Innanzi tutto, è fondamentale l’apporto di sostanza organica attraverso un arricchimento della componente umica del terreno, quindi sostituire la concimazione chimica con quella naturale (compost, pacciamatura naturale, letame) consentirà di ristrutturare il terreno, renderlo più equilibrato e aumentare l’efficacia di quegli interventi come la solarizzazione e di altre tecniche agronomiche ecosostenibili. Non è esatto parlare di una tecnica pienamente ecosostenibile perché i materiali impiegati per la realizzazione dei film trasparenti non sono certo naturali, parliamo di polietilene, polivinile e l’etiltetrafluoruroetilene, anche se l’evoluzione delle bioplastiche ci ha regalato i primi teli biodegradabili e compostabili migliorando l’aspetto ambientale e portando questa tecnica verso la piena compatibilità ambientale. La solarizzazione comporta diversi vantaggi immediati: viene eliminata una parte consistente degli organismi patogeni e anche di quelli concorrenti (piante infestanti), il suolo fornisce una maggiore quantità di elementi disponibili per la crescita delle piante (azoto, magnesio, potassio, calcio, ecc), diminuisce il lavoro dedicato al diserbo, non lasciamo alcun residuo chimico sul terreno che potrebbe essere assimilato dalle coltivazioni. L’effetto della solarizzazione è massimo alla superficie del suolo e diminuisce con la profondità. Per dare un’idea, la temperatura massima raggiunta dal suolo nei primi 7-10 cm di profondità si aggira intorno ai 40-60°, mentre a 30-40 cm si raggiungono temperature tra i 30-40 °, quindi l’azione più efficace si compie nei primi 10 cm di terreno. Il momento migliore per operare con questa tecnica sono i mesi estivi, da giugno ad agosto. Il terreno deve essere ben lavorato, soffice ed irrigato abbondantemente perché l’acqua conduce meglio il calore aumentando l’efficacia del metodo. I teli di plastica trasparente utilizzati dai professionisti sono trattati in modo da favorire il passaggio delle radiazioni solari, ma per un utilizzo casalingo può essere utilizzato un normale telo trasparente in plastica non troppo sottile (la plastica sottile è più efficace nel trasmettere la radiazione solare, ma si rompe molto facilmente sotto l’azione del vento e degli animali). Una variante di questa tecnica è l’utilizzo di teli di plastica nera che inibiscono la crescita delle infestanti (funzionano come un telo pacciamante), lo svantaggio è che si allunga il periodo per rendere efficace la solarizzazione. Per piccole aree trattate: un piccolo giardino o un prato in climi freddi, può essere utile utilizzare un doppio strato di plastica con una intercapedine creata con oggetti come bottiglie di plastica o tubo in PVC tra gli strati. Questo comporta un ulteriore aumento della temperatura tra 2 ° e 10 ° C rispetto alla temperatura ottenuta con un singolo strato di plastica trasparente. Questa tecnica può essere utilizzata anche per vasi e contenitori, ma viene usata anche per sterilizzare il terreno inserendolo all'interno di buste di plastica nera che raggiungono, esposte costantemente al sole, temperature molto elevate e con un efficacia molto maggiore rispetto al campo aperto, perché la diffusione del calore all'interno di un sacchetto confinato è ovviamente molto superiore rispetto ad un terreno che è confinato dal telo solo superiormente.  La tecnica della busta di plastica nera viene usata anche per sterilizzare compost che potrebbero presentare problemi di patogeni (ad es. compost da escrementi di animali domestici). 
Chiaramente non è la panacea di tutti i mali, la percentuale degli organismi eliminati è elevata ma non totale, le infestanti che hanno rizomi profondi sfuggono all'azione sterilizzatrice della solarizzazione, alcuni funghi non sono sensibili all'aumento di temperature, i nematodi sono molto mobili e possono sfuggire all'azione della temperatura, inoltre alcuni semi di infestanti hanno un’elevata resistenza al calore. Però, dobbiamo considerare che la tecnica è estremamente semplice, rapida, ecologica e procura indubbi vantaggi con pochissimo sforzo.

giovedì 16 ottobre 2014

Guida pratica alla pulizia naturale della casa

Nelle nostre case sono presenti decine di prodotti per la pulizia. Ormai possiamo dire che ad ogni oggetto che compriamo corrisponde un prodotto per pulirlo. Sono veramente necessari tutti questi detergenti chimici per pulire in modo sicuro ed efficiente le nostre case? Oltre al pericolo di inalazione e/o contatto con sostanze chimiche che possono nuocere a noi stessi e all'ambiente, dobbiamo considerare anche il problema del packaging, ovvero le confezioni di plastica che devono essere necessariamente smaltite in discarica o se va bene (ma deve andare proprio bene...) recuperate e riciclate. Comunque anche il riciclo delle confezioni comporta una spesa non indifferente a carico della cittadinanza, quindi se riuscissimo ad evitare l'acquisto di questi detergenti ne avremmo un vantaggio economico diretto, ma anche, alla lunga, un vantaggio in termini di riduzione del carico fiscale. Numerose organizzazioni indipendenti e governative hanno analizzato il problema della sicurezza dei prodotti per la pulizia della casa; in questo articolo vogliamo riportare i consigli che il governo australiano, dopo una serie di studi, ha pubblicato e divulgato alla popolazione.  Si tratta di un manuale sul pulire in modo naturale la nostra abitazione.
Il Kit naturale completo per la pulizia della casa consta di:
N.B. Il kit contiene anche alcune sostanze chimiche che sono comunque non inquinanti e/o di origine naturale 


Ci sono tre regole auree da seguire:

  • RIDURRE   drasticamente o  ELIMINARE l'uso di prodotti chimici sostituendoli con prodotti naturali.
  • SPESA INTELLIGENTE: acquistare solo quello che serve veramente esaminando il contenuto chimico di quello che acquistiamo evitando i prodotti più tossici.
  • SICUREZZA durante l'uso dei prodotti (tutti, anche quelli naturali), sicurezza nella conservazione (soprattutto per quanto riguarda i bambini).

martedì 16 settembre 2014

Le fogne: bomba ecologica globale

Quante volte sui libri di storia abbiamo letto lodi indiscusse sui benefici dei sistemi fognari, secondo tutti i testi l'invenzione della fogna avrebbe liberato l'uomo da una pletora di malattie e consentito la civilizzazione del genere umano. Bene, è ora di fare un po' di revisionismo storico e non solo confutare quanto scritto sugli autorevoli testi ma affermare l'esatto contrario. Ebbene si, la fogna quel buco nero che ci libera da tutte quelle sostanze che ci hanno insegnato fin da piccoli essere brutte, sporche e cattive, rappresenta una delle invenzioni più deleterie per il nostro pianeta. Cominciamo dall'inizio, il soggetto malefico che ha condotto l'umanità ad inventare le fogne: i nostri escrementi. Anche nella quotidianità familiare, quando i nostri figli toccano qualcosa di sporco usiamo apostrofarli con la fatidica frase: "non toccare! È cacca!". Siamo d'accordo, toccarla è forse un po' esagerato, ma diluirla in enormi volumi di acqua (che da quel momento diventa inservibile), trasportarla per chilometri e chilometri, utilizzare quantitativi spaventosi di energia per depurare i liquami, ottenere da questa depurazione delle acque, comunque inquinate, che appestano in modo continuo i mari di tutto il mondo, togliere sostanze nutrienti all'agricoltura per sostituirle con fertilizzanti chimici, non è forse immensamente stupido?
 Il nostro bagno è altamente energivoro, forse è “l'elettrodomestico” che consuma di più, non è solo lo scarico dell'acqua, provate a pensare a quanta energia è necessaria ad estrarre l'acqua dal sottosuolo, renderla potabile, portarla a casa di tutti noi, sollevarla fino al nostro piano. Poi, dopo aver raccolto i nostri scarti, l'acqua, ormai compromessa, non finisce di assorbire energia: passa attraverso stazioni di sollevamento, arriva ai depuratori dove viene trattata con tecniche che impiegano elevate quantità di energia e infine arriva al mare o al fiume. È finita qui? Purtroppo no, per ovviare ai guasti apportati alle falde idriche, ai fiumi e al mare in termini di inquinamento si devono impiegare risorse energetiche ed economiche immani: scavare pozzi di approvvigionamento più profondi (perché quelli superficiali sono inquinati), utilizzare tecniche di messa in sicurezza e di bonifica costosissime che incidono sulla collettività in modo enorme in termini di tasse e consumi, depurare le acque dall'inquinamento organico che noi stessi causiamo.

lunedì 1 settembre 2014

l'idiozia del genere umano: humus storia di una scomparsa


Nella dissennata e caotica corsa allo sviluppo a tutti i costi abbiamo perso la capacità di gestire in maniera equilibrata molte attività che l'uomo ha svolto per centinaia di anni. Tra queste, l’agricoltura è quella che forse ha risentito maggiormente del disequilibrio causato dalla trasformazione dell’economia agricola rivolta alla necessità e ai bisogni degli agricoltori e dei consumatori, ad un’economia industriale che volge tutte le attenzioni alla massimizzazione del prodotto a prescindere dalla sua qualità e dalle conseguenze che questa politica fa ricadere sulle persone e sul territorio. Fino a qualche decennio addietro l’azienda agricola era quasi a ciclo chiuso, l’immissione di energia in questi contesti era assai limitata, la fertilizzazione dei terreni era realizzata con gli stessi scarti dell’azienda, senza ricorrere ai fertilizzanti chimici che a partire dagli anni cinquanta hanno colonizzato tutte le pratiche agricole. L’immissione di elementi di sintesi nel terreno ha avuto una ricaduta assolutamente devastante sul territorio, sulla qualità del prodotto e sui consumatori. In primo luogo l’introduzione dei fertilizzanti chimici ha portato ad uno squilibrio del suolo, che nel tempo ha perso la sua capacità di produrre nuova sostanza organica; le quantità di humus prodotto dai terreni è scesa negli anni in modo vertiginoso, attualmente gran parte del territorio italiano è in una fase di desertificazione, anche molto avanzata, e questo è una delle conseguenze della perdita di sostanza organica. Il terreno viene continuamente “alimentato” artificialmente  causando la perdita di vitalità dei suoli, poiché con l’integrazione chimica tutti i processi di demolizione e sintesi della sostanza organica diventano superflui e gli organismi promotori, essenziali per la salute dei terreni naturali, perdono la loro funzione. La diminuzione di queste creature ha alterato il perfetto equilibrio che si realizza in natura, dove un numero immenso di organismi realizza un ciclo biologico assai complesso e versatile. La grande biodiversità presente nei suoli degrada la sostanza organica in decomposizione e la trasforma, attraverso complessi meccanismi biochimici e fisici, in substrato fertile per lo sviluppo di nuove piante. La perdita di biodiversità, inoltre, altera le caratteristiche del terreno in quanto tutti gli elementi immessi non possono essere “lavorati” dai microorganismi, diminuendo la possibilità di essere integrati all’interno della struttura del terreno. La concimazione chimica ha avuto successo fino a quando la sostanza organica che si è accumulata in centinaia di anni di fertilizzazione naturale (letami) non si è consumata. Attualmente, la percentuale di humus media nei nostri suoli è inferiore all’1% (si veda Tabella) e, nonostante massicci impieghi di concimi chimici (un suolo fertile possiede una percentuale compresa tra il 2 e il 2,5 % di humus), la resa dei suoli non è aumentata, anzi si è osservata una diminuzione della produttività dei suoli agricoli.

martedì 26 agosto 2014

7 diversi modi per raccogliere il vermicompost


Quando i nostri amici hanno completato la loro opera di trasformazione è necessario separare i lombrichi dal vermicompost. I modi sono diversi e ne abbiamo raccolti almeno 7 che qui di seguito esponiamo:

  1. Manualmente. E' il metodo che richiede più lavoro in quanto prevede la separazione manuale dei lombrichi dal compost. Separare manualmente i lombrichi comporta molto tempo, quindi, è meglio provare con gli altri metodi.
  2. Metodo dei coni o piramidi. Prendiamo la compostiera e rivoltiamo il contenuto su un telo in plastica o su una superficie liscia (ad es. cemento). Formiamo con l'humus dei coni alti 20-30 cm, i lombrichi, infastiditi dalla luce solare, scaveranno all'interno del cono per sfuggire alla luce. Dopo qualche minuto non si vedranno più lombrichi in superficie. A questo punto prendiamo un pennello o una spatola ed asportiamo uno strato di humus da tutta la superficie della piramide, fino a quando non intercettiamo nuovamente i lombrichi.Dopo la nuova esposizione alla luce, i vermi si rifugeranno più in profondità verso il centro della piramide. Ripetere fino a quando resteranno solo i lombrichi con una piccola parte di humus.
  3. Metodo della migrazione. Spostiamo tutto il contenuto della compostiera da un lato. Inseriamo una nuova lettiera sul lato rimasto libero. I lombrichi pian piano migreranno all'interno della nuova lettiera perché trovano cibo fresco. Nel breve volgere di un paio di settimane si saranno trasferiti quasi tutti nella nuova lettiera.
  4. Metodo della rete metallica. raccogliamo qualche manciata di humus dalla compostiera, poi prendiamo un pezzo di rete metallica a maglia fine (5 mm) e adagiamolo all'interno della compostiera. Sparpagliamo l'humus sulla rete metallica e esponiamo il tutto alla luce solare o artificiale (es. faretto). I lombrichi migreranno verso il basso passando attraverso le maglie della rete metallica e lasceranno l'humus sopra la rete. Togliamo la rete e mettiamo da parte il vermicompost, poi ripetiamo l'operazione quante volte è necessario.
  5. Corralling. Da corral (recinto), è una trappola per lombrichi. si prende una borsa in iuta a maglie larghe (in alternativa i sacchetti traforati per le patate del supermercato). Si riempie l'interno con una nuova lettiera e del cibo fresco e si sotterra all'interno della vermicompostiera. Dopo due giorni si estrae il sacchetto e si prelevano tutti i lombrichi attratti dall'esca.
  6. Cilindro rotante. Si tratta di un cilindro in rete metallica a maglie fini (5 mm) in cui viene introdotto il vermicompost.  Ruotando il cilindro le particelle di compost passeranno attraverso le maglie, mentre i lombrichi saranno trattenuti.
  7. Stacked bin. Una vermicompostiera a più ripiani è un comodo e veloce metodo per separare i lombrichi dal compost. Una volta che i lombrichi hanno trasformato gli scarti completamente, inseriamo sopra la compostiera (a contatto con il materiale all'interno) un altro box con il fondo traforato e riempito di lettiera e cibo fresco. I lombrichi migreranno attraverso i fori per cercare cibo fresco e nel giro di qualche settimana abbandoneranno il box inferiore per trasferirsi in massa in quello soprastante. 

giovedì 14 agosto 2014

Lotta biologica in giardino: uccelli insettivori al nostro servizio

Chi ha un giardino sa quanto è gradevole e soprattutto utile la presenza di uccelli insettivori nelle vicinanze. Oltre ad allietarci con il canto, la maggior parte di questi uccelli sono anche molto belli (cinciallegra, pettirosso, usignolo, scricciolo, ecc), ma soprattutto sono ghiotti di insetti. La lotta industriale agli insetti ha prodotto migliaia di sostanze chimiche intossicanti ed inquinanti,  con il triste risultato di avere eliminato sia gli insetti utili (alcuni addirittura indispensabili, vedi api e insetti pronubi) sia i loro predatori. Allora la domanda è sempre la stessa: perché dobbiamo continuare a intossicarci riversando milioni di tonnellate di pesticidi nell'ambiente se ci sono delle alternative gratuite e soprattutto naturali che non comportano spiacevoli conseguenze su di noi e sugli ecosistemi. In natura tutto si basa sull'equilibrio; se nel nostro orto e giardino notiamo che gli insetti sono una presenza troppo numerosa, allora dobbiamo fare in modo di attirare i loro predatori, al fine di ristabilire l'equilibrio. Se consideriamo che una coppia di cinciallegre durante la cova si ciba di circa 25 kg di insetti ( 25 kg!!!), ci possiamo rendere conto dell'efficacia di questa soluzione naturale. Oltre agli uccelli insettivori, anche i granivori danno una mano alla causa perché, quando le uova si schiudono, i piccoli hanno la necessità di grandi dosi proteiche per superare le prime delicate fasi dello svezzamento, quindi è normale vedere un passero o un cardellino (o altri granivori) portare degli insetti ai piccoli.  Quindi, nell'ottica di creare un ambiente accogliente per questi amici volatili, perché non realizzare dei nidi artificiali che possano ospitarli durante il periodo di accoppiamento e cova. 
Nido realizzato con compensato di recupero
Esistono numerose pagine internet dedicate alla realizzazione di cassette nido per uccelli (LIPU) e possono essere realizzate con i più svariati materiali, meglio se di recupero: legno, compensato, tubi in cemento, persino zucche svuotate.
Qualunque materiale venga utilizzato, occorre fare attenzione nelle rifiniture. In particolare, la colorazione (facoltativa) deve essere realizzata solo esternamente e esclusivamente con vernici ecologiche atossiche, l’interno viene lasciato al naturale. Ogni specie ha specifiche esigenze per quanto riguarda il nido e per questo motivo variano le dimensioni, la tipologia e il diametro dell'apertura. Scegliete quale specie “adottare” e realizzate la cassetta nido in funzione delle sue necessità e abitudini. Nella tabella qui sotto sono riportate le dimensioni ideali delle cassette nido per diverse specie di uccelli:
  
Specie
Diametro apertura
Dimensioni del fondo
Altezza parete posteriore
Altezza parete anteriore
Allocco
23x23
23x23
52
75
Picchio verde
23x23
23x23
52
75
Storno
6-7
13 x 13
30
45
Cinciallegra
5
23 x 23
35
40
Codirosso
3
almeno 10x10
16
21
Passera mattugia
3-5
almeno 10x10
almeno 18
23
Cinciarella, cincia mora
2,8
almeno 10x10
almeno 18
almeno 23
Cincia dal ciuffo
2,8
almeno 10x10
16
21
Picchio muratore
2,8-3,8
almeno 13x10
almeno 16
21
Pigliamosche
3.1-3.8
10x10
37.5
25
Scricciolo
5
10x10
37.5
25
Torcicollo
3.8-4.3
12.5x12.5
37.5
25


La tipologia del nido è diversa in funzione dell’etologia della specie, per semplicità si distinguono 2 tipi di cassette nido, quelle chiuse, con una piccola apertura circolare per consentire l’ingresso e l’uscita, e quelle aperte per le specie che nidificano in una struttura aperta (in questo caso l’intera parete frontale viene rimossa).
Le specie italiane più comunemente ospiti dei nidi artificiali a cassetta sono le seguenti:
Nidi a cassetta o a tronchetto, chiuse
Cinciallegra, Cinciarella, Cincia mora, Passera d'Italia, Passera mattugia, Storno, Picchio muratore, Rampichino, Torcicollo, Codirosso, Pigliamosche, Scricciolo
Nidi a cassetta aperta
Pigliamosche, Pettirosso, Ballerina bianca, Codirosso, Scricciolo, Merlo
Alcuni uccelli insettivori presenti in Italia
Ricordiamoci di realizzare la cassetta in modo che abbia una parete rimovibile per facilitare la ripulitura del nido una volta che i piccoli lo avranno abbandonato. Il momento ideale per posizionare il nido artificiale è immediatamente prima dell'inverno (ottobre-novembre)

Amsterdam: una città a misura di ape

Il declino inesorabile delle popolazioni di insetti a livello mondiale viene ormai considerato il prodromo di una vera e propria estinzione...